sabato 28 aprile 2018

Avengers: Infinity War

Chi troppo vuole, molto stringe



Dopo un lungo tramare nell'ombra, Thanos il Titano è uscito allo scoperto, e con l'aiuto dei suoi aiutanti si è messo alla ricerca di tutte le sei Gemme dell'Infinito. Se riuscisse a raccogliere, potrebbe portare a compimento il suo piano per salvare l'Universo da un'estinzione che ritiene certa: dimezzarne la popolazione. Solo gli Avengers e i Guardiani della Galassia possono fermare il Matto Titano, e forse anche loro potrebbero non essere sufficienti.

Avengers: Infinity War aveva un compito improbo: portare a compimento dieci anni di storie intrecciate attraverso una miriade di film (e non solo), tirando le fila di un'immensa trama  orizzontale dipanatasi in modo sotterraneo all'interno delle varie trame verticali. Questa trama preveù deva l'arrivo di un nemico tanto temibile da rendere necessario l'intervento di tutti gli eroi (più o meno super) dell'Universo conosciuto. Per farla funzionare servivano quindi un nemico credibile sia dal punto di vista della minaccia che dal punto di vista della caratterizzazione, nonché un attento bilanciamento dello spazio dato ai vari personaggi.

Possiamo dire che Infinity War assolve perfettamente ad ambedue i compiti, regalandoci il miglior villain cinematografico della Marvel e riuscendo a dare il giusto spazio a tutti i personaggi. Thanos non è il solito cattivo da fumetto che vuole conquistare l'universo: al contrario, vuole salvarlo dalla distruzione, ma pensa che l'unico modo per farlo sia uccidere metà dei suoi abitanti. Thanos è spinto da motivazioni profonde, che ci vengono svelate a poco a poco attraverso dei flashback molto efficaci e, sopratutto, attraverso l'esplorazione dei suoi legami con altri personaggi, in particolare Gamora. Josh Brolin dona al suo Thanos in computer grafica una gravitas degna di un eroe tragico, rendendolo ancora più credibile e sfaccettato.

I fratelli Russo riescono anche nell'impresa di rendere giustizia a tutti i personaggi, evitando che alcuni finiscano per soffocare gli altri, e investendo il tempo necessario per costruire le loro relazioni, che finiscono per essere l'elemento più convincente del film. I rapporti pre-esistenti, come quello tra Tony Stark e Peter Parker, vengono ulteriormente approfonditi, mentre quelli di nuova formazione vengono sviluppati con il giusto bilanciamento tra humor e connessione emotiva, sfruttando i numerosi parallelismi che naturalmente esistono tra le biografie dei vari eroi. Quelli che più beneficiano di questo trattamento sono Thor, mai così carismatico, e Doctor Strange, molto più convincente qui che nel suo film solista, anche grazie a un Benedict Cumberbatch più a suo agio nella parte. A brillare su tutti, però, sono sempre Tony Stark e Peter Parker, che ci regalano anche una delle scene più emotivamente efficaci del film.

Il film scorre veloce, con alcuni cali di ritmo perdonabili perché finalizzati allo sviluppo dei personaggi . Le immagini sono spettacolari, con combattimenti finalmente fluidi, chiari e ben fruibili e ogni ambientazione dotata di una sua forte identità scenografica e cromatica, evitando quell'appiattimento visivo e coreografico che si era verificato in precedenti film corali. A voler trovare una pecca, alcune delle vicende narrate sono decisamente meno interessanti di altre, e avrebbero forse dovuto ottenere meno spazio, anziché essere misurate con il bilancino per garantire un minutaggio simile a tutti i grandi nomi presenti nel cast.

Tuttavia, questo è un difetto veniale per un film che, nonostante delle ambizioni tanto gargantuesche da sembrare destinato a rimanerne vittima, secondo l'adagio del "chi troppo vuole, nulla stringe", è invece perfettamente riuscito. Avengers: Infinity War intrattiene splendidamente per quasi tre ore, che volano veloci fino a un finale creativo e spiazzante (e giocoforza in sospeso, visto l'arrivo del secondo capitolo nel 2019) che rimarrà a lungo nelle menti degli spettatori.

**** 1/2

Pier

martedì 24 aprile 2018

Molly's Game

Il gioco delle parole


Molly Bloom è un'ex sciatrice che ha dovuto abbandonare le sue speranze di partecipare alle Olimpiadi a causa di un incidente. Nel 2004 decide di concedersi una breve vacanza a Los Angeles prima di cominciare gli studi di giurisprudenza ad Harvard. Per guadagnarsi da vivere inizia a lavorare come assistente di un organizzatore di partite clandestine di poker di celebrità, con buy-in vertiginosi. Molly capisce subito di avere di fronte a sè un'opportunità eccezionale per diventare ricca, e decide di mettersi in proprio.

Aaron Sorkin è uno degli sceneggiatori migliori e più originali del cinema e della serialità televisiva. La sua scrittura è fatta di dialoghi serrati, pronunciati a un ritmo vertiginoso, che trascinano lo spettatore nella storia, costringendolo ad ascoltare, a osservare, a concentrarsi su coloro che pronunciano quel vortice di parole: i personaggi.
“Le parole sono importanti”, diceva Nanni Moretti, e attraverso le parole Sorkin definisce i suoi personaggi, caratterizzati da ciò che dicono ma, soprattutto, da ciò che non dicono. Non sorprende, dunque, che il suo primo film da regista sia in apparenza un film di parole, dove i dialoghi ci trasportano nell'abbacinante e vorticoso mondo di Molly Bloom, raccontandoci la storia vera della regina del poker clandestino di Hollywood.

Sorkin gioca abilmente con il mezzo cinematografico, supportando la sua scrittura con un montaggio rapido e sincopato, e fa in modo che il ritmo rimanga sempre elevato, ipercinetico, rendendo invisibile l’impianto teatrale della sua messa in scena e facendo di ogni dialogo uno spettacolo, di ogni confronto una scena che lascia con il fiato sospeso.
In mezzo alla tempesta di parole, sono i non detti a occupare un posto centrale nel film: Molly, e con lei gli altri personaggi, non è definita da quello che dice, ma da quello che non dice, da quello che non fa. Non rivela i nomi dei suoi clienti per ottenere uno sconto di pena, non scende a compromessi per continuare la sua attività, e soprattutto non usa mischia lavoro e sentimento. Circondata da uomini, Molly li tiene sempre a debita distanza, esibendo una professionalità che invece manca a chi la circonda.

Attraverso un abile incastro di diversi piani temporali, Sorkin fa emergere la personalità di Molly con il passare dei minuti. Accanto alla professionalità e alla serietà lavorativa emerge una caratteristica che le esalta per contrasto, la sua fragilità nei rapporti personali: tanto Molly è seria, quasi dura sul lavoro, tanto è fragile nella sua vita privata. Come aveva già fatto con Mark Zuckerberg e Steve Jobs, Sorkin usa i dialoghi per scavare nei suoi personaggi, mettendoli a poco a poco a nudo in un processo che ricorda la scultura di Michelangelo: un costante lavoro di cesello con cui libera i personaggi dal marmo che li contiene e li espone allo spettatore nella loro vera natura. Questo fa sì che lo spettatore si affezioni sempre più a Molly, identificandosi con questa donna complessa, forte e fragile allo stesso tempo, dotata di un’intelligenza fuori dal comune e tradita da un solo, piccolo, fatale errore.

Il grande lavoro di Sorkin sarebbe però reso vano se a interpretare la protagonista non ci fosse una straordinaria Jessica Chastain, magnetica nel suo carisma e capace di passare in un attimo dalla risolutezza alla fragilità più estrema, senza però mai abbandonare la dignità che è il cuore pulsante del suo personaggio. Idris Elba offre un’ottima prova nel ruolo dell’avvocato. Il suo personaggio impara a conoscere Molly insieme allo spettatore: dapprima disgustato, poi perplesso, infine totalmente partecipe delle vicende della sua cliente, sfuggente ma al tempo stesso trasparente nel suo voler difendere la reputazione dei suoi clienti e, con essa, la sua dignità professionale e umana. Accanto a loro, Kevin Kostner è convincente nel ruolo (centrale) del padre di Molly, mentre Michael Cera è sorprendente in una parte molto lontana da quelle cui ci ha abituato, quella di una celebrità che trae piacere non nel gioco, ma nell'umiliare i suoi avversari (personaggio peraltro ispirato a un altro insospettabile come Tobey Maguire).

Sorkin debutta alla regia con un lavoro senza fronzoli ma molto solido , che si mette al servizio della sua scrittura ma riesce anche a creare una forte identità visiva per il film, che si dipana tra l'oscurità degli ambienti notturni e la luce sfolgorante dei tavoli, in un continuo contrasto tra luci e ombre che rispecchia la vicenda narrata.

Molly's Game è un film classico, che fa suo il ritmo vorticoso delle commedie degli anni Quaranta e Cinquanta che hanno reso grande Hollywood e lo adatta a un racconto quanto mai attuale sulle conseguenze dell'avidità e sul prezzo da pagare per farsi strada nel mondo senza perdere la faccia. Un film frenetico, senza un attimo di pausa, in cui ci si diverte, si riflette, ma soprattutto ci si appassiona a personaggi scritti con assoluta perizia.

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Pier

venerdì 6 aprile 2018

Ready Player One

Sulle spalle dei giganti


In un futuro grigio e distopico, la maggior parte dell'umanità è ridotta in miseria, senza alcuna prospettiva di miglioramento. La popolazione mondiale si rifugia quindi in Oasis, una realtà virtuale videoludica in cui tutti possono essere ciò che desiderano. Quando James Halliday, geniale creatore del gioco, muore, in un videomessaggio rivela di aver nascosto in Oasis un easter egg: per trovarlo, sarà necessario superare tre prove. Il primo a farlo diventerà il suo erede e otterrà il controllo di Oasis.

È ancora possibile creare qualcosa di originale? Questa domanda aleggia ormai da anni nell'industria cinematografica, stretta tra orde (spesso barbare) di remake, sequel, prequel, e altri prodotti derivati e derivativi. È interessante, e quasi paradossale, che una delle risposte più interessanti a questa domanda arrivi da un film come Ready Player One, che a prima vista sembra essere un immenso, infinito omaggio al cinema (soprattutto degli anni Ottanta) e ai videogiochi.
E, a prima vista, la risposta sembra essere un "no", quella più scontata: il film racconta infatti una corsa infinita e nostalgica in un mondo modellato sul passato, sorprendente e appassionante, che si contrappone a un presente grigio e pieno di noia. L'escapismo, nella sua accezione più negativa (la "diserzione del soldato" tolkieniana), sembra elevato a ragione di vita, e la conoscenza del passato "pop" e della cultura nerd sembra l'unica ad avere valore. Tuttavia, Spielberg, come Halliday, nasconde il significato del suo film in profondità, eppure in bella vista: nel passato si possono trovare le risposte, secondo il principio della "storia maestra di vita", ma è nel presente che si deve agire, facendo in modo che il pensiero diventi atto, e la conoscenza sia messa al servizio del bene comune.

Ready Player One non vuole proporre un ideale di società, ma ritrarre (e criticare) la società in cui viviamo: una società dell'apparenza virtuale, in cui la discrezione sembra impossibile e il valore e l'identità di una persona sono sempre più determinate dal suo successo e dalla sua immagine social. Nel farlo, tuttavia, non si lascia andare a facili moralismi o pindariche elucubrazioni, ma nel modo più semplice eppure più complesso: attraverso la storia e l'evoluzione dei suoi protagonisti. Questa mancanza di afflato filosofico-esistenziale ha tratto in inganno molti critromboni (critici tromboni, una specie in via d'estinzione ma ancora pericolosamente influente nelle sue concioni), incapaci di concepire che possa esistere riflessione in un'opera che è anche in grado di intrattenere e divertire, e che si sono quindi fermati a un'interpretazione letterale (e limitata ai primi 60 minuti) del film.

Ready Player One ha infatti tutte le caratteristiche dei film più amati di Spielberg: due protagonisti (contando anche Halliday), Wade e Samantha, ben delineati, un cast di contorno tipizzato ma funzionale, e soprattutto una storia che procede spedita verso il finale, con una progressione che, pur ricalcando giocoforza quella dei livelli di un videogioco, riesce a permearla con la ricchezza del linguaggio cinematografico. La computer grafica è di livello altissimo, e quasi sempre ci si dimentica di stare guardando degli avatar e noi dei personaggi reali. Tra divertissement e scene altamente spettacolari, Spielberg si e ci regala anche un portentoso omaggio a uno dei suoi maestri e a un capolavoro della cinematografia moderna; una scena, questa, destinata a rimanere negli annali, e che rappresenta appieno la filosofia cinematografica di Spielberg: costruire sul passato per creare qualcosa di nuovo, riconoscendo di essere "nani sulle spalle dei giganti" ma al tempo stesso avendo l'ambizione di diventare i "giganti" delle future generazioni. Guardare al passato con nostalgia non è un peccato, purché questa nostalgia non diventi ossessiva ripetizione o, nel peggiore dei casi, onanistico omaggio. Allo stesso modo, l'escapismo non è necessariamente negativo e, anzi, può anche arricchire, purché non diventi fuga dalla realtà o addirittura non si sostituisca ad essa.

Ed è questo, in fondo, il messaggio di Ready Player One, un messaggio che dovrebbe essere chiaro fin dalla scelta di fondere passato e realtà virtuale in un unicum, con Oasis che rappresenta sia la fuga dalla realtà che la fuga dal presente. Sia passato che realtà virtuale sono affascinanti ed esercitano un richiamo irresistibile, ma rischiano di diventare una trappola, un labirinto senza uscita in cui morire lentamente mentre culliamo un'illusione di immortalità. Il passato e il mondo digitale possono arricchire la nostra vita (e il nostro cinema), ma solo a patto che li si utilizzi per creare qualcosa di nuovo, divertente e appassionante; qualcosa che non necessariamente deve essere un capolavoro, ma che abbia la capacità di intrattenere e divertire le nuove generazioni, esattamente come Indiana Jones o Hook hanno intrattenuto e divertito quelle del passato; qualcosa come Ready Player One.

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Pier