venerdì 26 gennaio 2018

L'ora più buia

Oratoria e responsabilità


Londra, 1940. Hitler ha appena invaso il Belgio e si prepara ad attaccare la Francia. Neville Chamberlain, il primo ministro conservatore sostenitore della necessità di dialogare con Hitler, viene costretto a dimettersi. Il Parlamento vuole un governo di unità nazionale, in grado di unire tutti i partiti per sostenere la guerra contro la Germania. Un solo nome emerge dai possibili candidati, quello di Winston Churchill, unico politico a tuonare fin dal primo momento contro il pericolo di Hitler. Disprezzato dai membri del suo stesso partito e dal re, che spingono per la pace, Churchill si trova di fronte a una missione impossibile: evitare una disfatta che appare ineluttabile e convincere il partito e il paese della necessità di non scendere a trattative con Hitler.

A un'analisi superficiale, L'ora più buia potrebbe sembrare un semplice, classico film biografico, con tutta la retorica e i momenti agiografici che caratterizzano questo tipo di film. Joe Wright senza dubbio non lesina momenti di patriottismo smodato e non esita nemmeno a usare aneddoti inventati per sottolineare il più possibile l'eccezionalità del protagonista.
Tuttavia, il film è anche e soprattutto altro. Lo si intuisce fin dalla scelta dell'orizzonte temporale descritto: non l'intera vita di Churchill, non l'intera durata del suo mandato da primo ministro, non l'eroica resistenza di Londra sotto le bombe. Wright sceglie di concentrarsi invece su quella che lo stesso Churchill definì "l'ora più buia", per l'Europa ma anche per se stesso, il momento in cui i politici inglesi gli consegnarono di malavoglia  il potere e lui si ritrovò tra le mani l'ingrato compito di dover scegliere tra una pace più facile ma ad alto rischio, che avrebbe tradito tutti gli ideali in cui credeva, e una guerra ancora più rischiosa, ma fatta in nome di questi stessi ideali. 

L'ora più buia non è, quindi, un film biografico, nè un film di guerra: è un film sulla responsabilità e sulla solitudine di chi detiene il potere, sul peso della responsabilità e del prendere decisioni che, anche se giuste a tavolino, possono rivelarsi tremendamente sbagliate quando messe in pratica (Churchill vedeva così, ad esempio, quello che oggi è considerato il suo fallimento più grande, Gallipoli). 
È, inoltre, un film sulla forza dell'oratoria e delle parole, che difatti pervadono il film anche a livello visivo. "Ha mobilitato la lingua inglese e l'ha mandata in battaglia", dice Lord Halifax, il più fiero nemico interno di Churchill, in uno dei momenti chiave, e qui sta anche il cuore del film, all'intersezione tra politica e arte oratoria, responsabilità e capacità di persuasione. Quando Churchill si trova di fronte a decisioni difficili, quando tutto sembra perduto, la prima cosa che gli viene meno sono proprio le parole, il suo dono e la sua maledizione, la risorsa che lo ha aiutato a farsi strada nella sua carriera e la ragione per cui molti non lo prendono sul serio, e lo considerano solo un eccentrico cialtrone dotato di un'ottima parlantina. E proprio su un discorso (splendido) di Churchill cala il sipario, come se esaurito il potere dell'oratoria non restasse più nulla da dire, nulla da raccontare, con le porte che si chiudono dietro lo statista allo stesso modo in cui il sipario cala sull'attore.

A proposito di attori, Gary Oldman (irriconoscibile grazie allo splendido trucco) è semplicemente perfetto nella sua impersonazione di Churchill, di cui riesce a trasmettere tutte le sfumature: se il film scivola a volte nell'agiografia, l'intepretazione di Oldman è invece sfaccettata, e fa intuire, laddove la sceneggiatura sorvola, da dove derivino le contraddizioni di Churchill e lo scetticismo di chi lo circonda. Non è un caso che, al netto degli splendidi monologhi in cui Oldman raggiunge un tale livello di immedesimazione da essere pressoché indistinguibile dall'originale (qui un'intervista con Oldman stesso in cui spiega come si è preparato alla parte), le parti migliori del film siano le conversazioni tra Churchill e Re Giorgio VI (un ottimo Ben Mendelsohn), che proprio nella parola aveva il suo tallone d'Achille. I loro dialoghi fanno risaltare le similitudini tra due uomini solo all'apparenza opposti, uniti dal senso del dovere e dal peso di un potere che si sono trovati tra le mani quasi per caso, e che hanno dovuto imparare a gestire nel momento più buio della storia del Regno Unito e d'Europa.

In un'epoca di incertezza morale e crisi del sistema politico, L'ora più buia offre un'interessante storia su temi centrali per la vita pubblica e per chi vorrebbe porsi alla guida della società. Nonostante alcuni passaggi inutilmente didascalici e retorici, il film convince, emoziona, e ci costringe a riflettere sull'importanza del linguaggio e della responsabilità, sopratutto in una società che pare aver dimenticato sia l'uno che l'altra.

*** 1/2

Pier

PS: fate un favore a voi stessi e allo splendido lavoro di Gary Oldman e andate a vedere il film in lingua originale, evitando un doppiaggio qui davvero delittuoso. Non ve ne pentirete.

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