mercoledì 29 marzo 2017

Kong: Skull Island (In pillole #8)

Tutto stupore e ferocia




Esistono due modi di fare i film di mostri, ambedue validi: il primo è quello di Pacific Rim, in cui la "trama" viene riassunta nei primi 10 minuti senza eccessivi danni per i neuroni, e poi giù botte da orbi per i successivi 90. Il secondo è quello che ha provato a intraprendere Gareth Edwards con il suo Godzilla, in cui il mostro diviene un pretesto per parlare di altro.

Quando uscì Godzilla lo stroncammo, con il senno (e il King Kong) di poi forse immeritatamente, dato che quantomeno aveva avuto il coraggio di fare una scelta forte e di portarla fino in fondo. Kong: Skull Island sceglie invece una via di mezzo che finisce per appesantire il film nella prima parte, dove lo spettatore è costretto a sorbirsi la presentazione dei personaggi e, ancor peggio, uno sproloquio pseudoscientifico che dovrebbe spiegare l'esistenza dei mostri su Skull Island.

Restano gli effetti speciali, davvero clamorosi, e una fotografia ispirata ad Apocalypse Now (il film si ambienta alla fine della guerra in Vietnam) che regala al film una spettacolarità visiva che va al di là del mostro e delle esplosioni.

Gli attori fanno la loro parte, ma utilizzare grandi interpreti del calibro di Brie Larsson, Tom Hiddleston e Samuel L. Jackson per un film del genere sembra più uno spreco che un arricchimento.

Kong: Skull Island è un film tutto stupore e ferocia, che però vorrebbe darsi un tono intellettuale, finendo per risultare pesante là dove dovrebbe intrattenere, e poco profondo là dove dovrebbe far riflettere.

**

Pier

martedì 7 marzo 2017

Moonlight

Racconto di formazione


Chiron è un bambino nero di dieci anni, ed è il bersaglio dei bulli della scuola. Sua madre si droga, e lui trova rifugio in casa di Juan, uno spacciatore, e Teresa. Parla poco, ma sembra capire che qualcosa in lui lo rende fuori posto, rifiutato dal mondo machista che lo circonda. Chiron cresce, e questa percezione della sua diversità si accresce, mentre il bullismo non si ferma. Ora sa perché viene perseguitato: è gay e, nonostante non lo abbia mai detto a nessuno, gli altri percepiscono la sua diversità e non la accettano. Chiron dovrà imparare a fare i conti con un mondo ostile, a scegliere tra il vero se stesso e quello che gli altri vogliono da lui.

Togliamoci subito il dente: dare l'Oscar per il miglior film a Moonlight, preferendolo a La La Land, è come entrare nella Cappella Sistina e premiare la qualità degli infissi.

Detto questo, Moonlight è un bellissimo film corale, ben girato e interpretato, cui per assurdo la vittoria dell'Oscar può fare più male che bene, generando aspettative troppo elevate. Moonlight infatti non spicca certo per l'originalità della vicenda trattata, né per creatività registica: chi è familiare con il cinema europeo, e in particolare quello francese, riconoscerà molte similitudini tematiche e visive con film celebri (I 400 colpi, citato esplicitamente nel finale) e non (Stella, Tempête, La belle vie). Il tutto senza contare i debiti espliciti con Boyhood a livello narrativo, e con il cinema di Wong Kar-wai a livello visivo.

Cosa rende, allora, Moonlight un film interessante ed emozionante? Al primo posto c'è indubbiamente la storia, narrata con delicatezza e senza patetismi, un racconto di formazione ben articolato in termini sia di forza del messaggio che di costruzione dei personaggi. La sceneggiatura costruisce alla perfezione ambienti, situazioni e interazioni. La difficile infanzia e l'ancor più difficile adolescenza del protagonista vengono raccontati con toni neutri, quasi da documentario, ma con una fatalità da tragedia classica, in cui ogni evento sembra ineludibile, e il destino del protagonista è segnato fin dal primo atto di bullismo subito.

Questo aspetto è sottolineato anche dalla struttura visiva del film, in cui alcune scene e temi musicali sono ripetuti in punti diversi del film, riemergendo come temi portanti all'interno di una melodia. Jenkins realizza infatti una vera e propria sinfonia in tre movimenti, con luci, recitazione e musiche diverse per ciascun atto, e allo stesso tempo contenenti elementi che richiamano alle situazioni precedenti.

Tutti gli attori offrono prove eccellenti: Mahershala Alì, premiato con l'Oscar, è bravissimo, ma la sua prova viene oscurata da quelle di Naomie Harris, splendida nel ruolo della madre di Chiron, e soprattutto di Trevante Rhodes, lo Chiron adulto, perfetto nel rendere il delicato equilibrio tra fragilità e sensibilità interiore e fisicità e muscolarità esteriore.
L'unica pecca grave di Moonlight  è il ritmo, soprattutto nell'ultimo atto, dove il film si trascina un po' fino al bellissimo finale, semplice ma di grande impatto emotivo

Per quanto sia indubbio che molte delle lodi ricevute siano dovute alla piaga del politicamente corretto che ormai infesta il cinema made in USA (un politicamente corretto, peraltro, solo superficiale, come mostreremo in un articolo prossimo venturo), Moonlight è comunque un buon film che, pur non brillando per originalità, racconta con efficacia narrativa ed emotiva una storia di formazione e discriminazione, in cui la diversità di orientamento sessuale diventa paradossalmente ancora più isolante in un contesto in cui la diversità (etnica) è parte fondante della propria identità.

***

Pier


mercoledì 1 marzo 2017

Logan

Quindi questo è quello che si prova



2029: i mutanti sono scomparsi e divenuti materiali per i fumetti. Logan/Wolverine è uno degli ultimi rimasti. Accudisce il professor Xavier, affetto da demenza senile, in un complesso industriale abbandonato in Messico, al confine con gli USA, aiutato dall'antico nemico Caliban. Un giorno, una donna bussa alla sua porta: ha con sé Laura, una ragazzina mutante con poteri molto simili a quelli di Logan. L'uomo dovrà decidere se aiutare Laura, scelta che comporterebbe uscire dal suo isolamento e, forse, dover fare i conti con il proprio doloroso passato.

"Quindi questo è quello che si prova": questa frase, pronunciata in un punto importante di Logan, riassume in pieno il sentimento dello spettatore nel vedere finalmente davanti a sé tutto quello che i film di supereroi, e quelli di Wolverine in particolare, non erano mai riusciti a essere. Logan non è semplicemente un film di supereroi: è un film d'autore. Di genere, certo, ma comunque d'autore, che ha poco da invidiare a perle del cinema d'azione come Mad Max: Fury Road o Léon, per citare due film che per Logan sono indubbiamente stati fonte di ispirazione.

Mangold (autore eclettico, la cui filmografia spazia da Ragazze interrotte a Kate e Leopold, passando per Quando l'amore brucia l'anima) dirige un road movie spietato, a metà tra il western e il post apocalittico, in cui la legge non esiste più e ognuno fa parte per se stesso. Al centro di tutto c'è lui, Logan, finalmente spogliato della patinatura dei primi film e restituito alla sua natura primordiale e selvaggia, il cui unico scopo è sopravvivere e proteggere i suoi cari. I mutanti sono scomparsi, i suoi poteri stanno svanendo, ma Logan è determinato a salvaguardare quel poco che resta del suo mondo, quel Professor Xavier che gli ha insegnato tutto, e il Caliban che da nemico si è trasformato in alleato di questa silenziosa difesa della propria dignità. Il passato è al tempo stesso agognato e temuto, un tempo idealizzato cui non si può più tornare e un fardello insopportabile.

Il nemico non è un supercattivo, non è un'organizzazione spietata e criminale (anche se compaiono entrambi): il vero nemico, per Logan e Xavier, sono loro stessi, quello che sono stati e ciò che sono diventati. Mangold ha il coraggio di spingere questa metafora fino alle sue estreme conseguenze, realizzando scene di raro impatto emotivo, in cui i protagonisti si trovano costantemente a fare i conti con i propri errori, e cercano disperatamente di cogliere l'occasione, forse l'ultima, di rimediare.

Logan è uno di quei rari film in cui ogni elemento si incastra alla perfezione con gli altri: la fotografia di John Mathieson è sporca, ruvida, polverosa, con il sole che brucia gli occhi e la pelle; la musica è quasi assente, in una natura aspra e selvaggia dove non sembra esserci spazio per orpelli di alcun genere; le parole sono ridotte al minimo, in una lunga fuga in cui azioni e sguardi contano più di mille dialoghi; la sceneggiatura è vincente per ritmo e introspezione, e costruisce con grande delicatezza e tempismo lo strano rapporto tra Logan e Laura, due animali selvaggi che riconoscono nell'altro un simile da amare e da temere; infine, i combattimenti e gli inseguimenti sono veri, violenti, brutali, ripresi con perizia e attenzione ai dettagli, anziché con il montaggio concitato e confusionario che caratterizza molti cinecomic. Mangold guida il tutto con grande maestria, dimostrando non solo un'ottima abilità registica, ma anche una grande sensibilità emotiva, riuscendo a creare momenti di vera commozione.

La cilegina su questa ottima torta sono i personaggi, perfetti sia per caratterizzazione che per interpretazione. Hugh Jackman porta finalmente sullo schermo un Wolverine vero, trasandato, rozzo, sporco e con il vizio del bere, arricchendolo di un tocco emotivo che all'inizio si intravede sotto la superficie, per poi emergere con prepotenza  con il passare dei minuti. Patrick Stewart è commovente nel suo ritratto dell'invecchiato Xavier, la mente più potente del mondo affetta da una malattia neurodegenerativa che gli impedisce di controllare se stesso e i suoi poteri, una pallida ombra dell'uomo che è stato, eppure ancora disperatamente determinato a salvare quelli come lui; infine, Dafne Keen è una rivelazione, una macchina da guerra nel corpo di una bambina, letale e feroce ma allo stesso tempo capace di momenti di straordinaria dolcezza. La sua Laura è il cuore pulsante del film, ed è lei a regalarci la scena più emozionante.

Logan non solo sorpassa i precedenti film su Wolverine, ma porta la narrazione del cinecomic su un piano a oggi del tutto inesplorato. Mangold realizza quello che può essere senza dubbio considerato il film di supereroi migliore tra quelli tratti dai fumetti Marvel, in grado di chiudere degnamente la parabola del più amato degli X-Men con un tocco autoriale che riesce sia a intrattenere, sia a toccare più volte le corde emotive dello spettatore, trascendendo il genere del cinecomic per diventare qualcos'altro: un grandissimo film.

*****

Pier