giovedì 18 dicembre 2008

Come Dio Comanda - Paolo Mereghetti


Da sinistra Elio Germano nei panni di «Quattro formaggi» e Filippo Timi (Il padre «adottivo)
Da sinistra Elio Germano nei panni di «Quattro formaggi» e Filippo Timi (Il padre «adottivo)
Il tema delle «colpe» dei padri e dei «rimpianti» dei figli è presente da sempre nell’opera di Gabriele Salvatores, a volte solo in negativo (come nella trilogia generazionale degli inizi) a volte come una delle possibili sottotrame (come in Sud). Da un po’ di film a questa parte, invece, quel tema ha preso sempre più spazio, fino a diventare una delle linee di forza dell’ispirazione: importante in Amnèsia e Quo vadis baby?, centrale in Io non ho paura, totalizzante in Come dio comanda, in uscita oggi.

Ispirato a un romanzo fluviale di Niccolò Ammaniti, il film ne espunge molti personaggi e avvenimenti per concentrarsi sul tormentato rapporto di Rino Zena (Filippo Timi) col figlio vero Cristiano (Alvaro Caleca, al suo esordio) e quello «adottivo » Quattro Formaggi (Elio Germano). Il primo è un adolescente cupo e ombroso, succube verso il genitore di cui ha assorbito il vitalismo apocalittico e oltranzista; il secondo è un ex compagno di lavoro di Rino, menomato da un incidente sul lavoro che l’ha fatto regredire a uno stato para-infantile. Il terzetto vive in un paese montano senza nome del Nord-Est italiano, ognuno rabbiosamente alle prese con i problemi quotidiani: Rino alla ricerca di un lavoro che non trova e che vede sparire ogni giorno di più per la concorrenza di «negri e slavi»; Cristiano nel tentativo di mascherare la sua vera anima e le sue vere idee di fronte a insegnanti e compagni da cui si sente distantissimo; e Quattro Formaggi all’inseguimento di un suo mondo di fantasie e desideri che carica di troppe aspettative.

Gabriele Salvatores
Gabriele Salvatores
Salvatores, che ha scritto la sceneggiatura con Niccolò Ammaniti e Antonio Manzini, salta di getto qualsiasi tipo di mediazione sia sociologica che psicologica. Non sappiamo niente del passato di Rino e Cristiano né della «fine» della madre, così come Quattro Formaggi ci viene presentato senza altri legami familiari che non quelli dei due Zena. E fin dall’episodio del Suv e della motoretta che ne impedisce il parcheggio, i rapporti sociali tra le persone sembrano essere costruiti solo sulla sopraffazione e la violenza. Un mondo senza anima e un’umanità senza passato, dove (un po’ troppo simbolicamente) chi è strambo raccoglie oggetti nelle discariche e chi teorizza il razzismo e dipinge gigantesche svastiche sui muri di casa non può che divertirsi a sparare tra le cave di ghiaia.

C’è come un sovraccarico di disvalori, un incupimento eccessivo del quadro che può trovare una giustificazione in certi fatti di cronaca ma che nella logica del racconto cinematografico finisce per sembrare eccessivo, fin troppo sgradevole, volutamente esasperato, così da togliere (e non si capisce perché) ogni possibilità di immedesimazione con qualcuno dei protagonisti. In questo modo, l’inevitabile dramma che scoppia in una notte troppo piena di metafore (lampi, pioggia, fango, sentieri solitari) rischia di non appassionare e di essere vista come l’epilogo «inevitabile» di fronte ai comportamenti di tre emarginati «destinati» alla tragedia.

Nel film ogni personaggio si comporta come da manuale: Quattro Formaggi confonde tragicamente una ragazza (Angelica Leo) con l’oggetto delle sue fantasie erotiche, Rino mescola ancora una volta rabbia e paternalismo (vuole aiutare l’amico ma finisce per restare, involontariamente, coinvolto) e il piccolo Cristiano si sforza come sempre di conciliare senso del dovere e senso di obbedienza, bisogno d’affetto e paura reverenziale.

Germano interpreta un giovane che dopo un incidente sul lavoro regredisce a uno stato para-infantile
Germano interpreta un giovane che dopo un incidente sul lavoro regredisce a uno stato para-infantile
Ma al di là dell’indubitabile abilità tecnica che permette a Salvatores (e al direttore della fotografia Italo Petriccione e al montatore Massimo Fiocchi) di costruire una scena lunga quasi mezz’ora tra il buio delle notte e il fango di un temporale senza che lo spettatore ne provi stanchezza, tutto sembra troppo «significativo » (e un po’ prevedibile) per emozionare davvero. Proprio come la parentesi «erotica» (l’avventura notturna del padre con una occasionale conquista) o quella «sociologica » (il rabbioso discorso del padre al funerale della figlia), troppo programmaticamente cariche di significato perché lo spettatore in qualche modo non se le aspetti e non le metabolizzi velocemente. E questo nonostante l’impegno di tutto il cast, convincente soprattutto quando non sottolinea eccessivamente la solitudine e il dolore che affligge ogni personaggio.

Così la scelta di adeguare completamente stile e narrazione a un codice realistico (senza per esempio gli squarci favolistico-ecologici che spezzavano la tensione di Io non ho paura) finisce per schiacciare tutto — la storia di un delitto di provincia, il ritratto di tre personaggi senza speranza, il quadro di una società egoistica e violenta—sotto una cappa di disperazione e di sociologia dove tutto sembra preda di un «male» metafisico e indistinguibile, troppo apocalittico quando accenna a un mondo ostile e vendicativo o superficialmente assolutorio quando invece si chiude solo sul rapporto tra padre e figlio.

Paolo Mereghetti
12 dicembre 2008

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